Intervista esclusiva ad Alberigo Evani: ricordi del Mondiale a stelle e strisce
venerdì 12 settembre 2014
Alberigo Evani è stato, prima ancora che ct delle nazionali giovanili azzurre (attualmente dell'Under 20), un calciatore vincente, vicecampione del mondo nel '94 al Mondiale statunitense e parte integrante di un Milan che per anni ha dominato in Italia e in Europa. Il campione toscano ha parlato in esclusiva con Vivo Azzurro, che pubblicherà la sua intervista in due parti: la prima dedicata alla sua carriera da calciatore, la seconda a quella di allenatore e selezionatore.
A USA '94 Evani è entrato in finale e ha segnato anche uno dei calci di rigore nella sfortunata finale contro il Brasile. Cosa si ricorda di quell'avventura azzurra?
Per me è stato un Mondiale composto solo da inizio e chiusura: nel mezzo non ci sono stato perché mi sono stirato un polpaccio dopo la prima partita. Il percorso, più che di campo, è stato di fisioterapia e, grazie al lavoro di medici e fisioterapisti, sono riuscito a mettermi a disposizione del mister, che non pensavo neanche mi potesse dare la possibilità di giocare, anche se entrando durante i tempi supplementari. E' stata una ricompensa per i miei sforzi e sono stati bravi anche i miei compagni ad arrivare fin lì.
Della 'lotteria' dei rigori cosa ricorda?
I rigori sono una cosa difficile da spiegare, non vince sempre il più forte, per fare gol non basta essere bravi, ma è necessario essere freddi e freschi, di gambe ma soprattutto di testa. Non è questione di qualità, infatti hanno sbagliato due campioni (Baggio e Baresi, ndr). Però, nonostante il dispiacere per aver perso un trofeo così importante, devo ammettere che probabilmente il Brasile durante il Mondiale aveva fatto qualcosa di più rispetto a noi. Forse meritavano più loro che noi: è l'unico modo per attenuare la delusione.
Com'è arrivato a battere uno dei rigori? Si è offerto lei oppure le è stato chiesto?
Me l'ha chiesto Sacchi e ho dato la mia disponibilità. D'altronde le responsabilità bisogna prendersele. Visto che in tutto il Mondiale non avevo avuto la possibilità di farlo, in quel momento era giusto far qualcosa per i miei compagni.
Se dovesse riassumere in pochi minuti tutta la sua carriera da calciatore, quali sono le tappe che ripercorrerebbe Alberigo Evani?
Ho iniziato come tutti i ragazzini, con la passione per il pallone, non dico da quando sono nato ma quasi. Il pallone era il mio migliore amico. A Massa, il mio paese di origine, giocavo anche con quelli più grandi, nonostante non fossi ancora tesserabile. A 14 anni, dopo un percorso nel settore giovanile della Massese, sono stato preso dal Milan insieme a Battistini. E' cominciato un percorso formativo dai Giovanissimi alla prima squadra, con la quale ho esordito a 18 anni, rimanendoci dal 1981 al 1993. Ho vissuto tutte le tappe del Milan: dalla retrocessione alla ripartenza fino agli anni d'oro dell'era Sacchi-Capello. Poi la Nazionale mi ha fatto fare una scelta differente nel '93, contro il volere anche della società, che infatti mi ha ceduto solo in prestito alla Sampdoria proprio perché non era convinta. Ma io volevo giocarmi le possibilità di giocare i Mondiali del '94 e nel Milan era cominciato il cosiddetto turn-over. Conoscendo il ct Sacchi, che non mi avrebbe chiamato se non avessi giocato con continuità, ho scelto di andare a Genova su pressione anche di Roberto Mancini e abbiamo disputato un'ottima stagione.
Dopo il Mondiale com'è proseguita la sua carriera?
Ero in prestito alla Sampdoria, che ha esercitato il diritto di riscatto. Il primo anno era andato bene, avevamo anche vinto la Coppa Italia, che non ero riuscito a vincere col Milan. Ho proseguito per altri quattro anni alla Sampdoria e poi ho terminato la carriera con Reggiana e Carrarese.
Ci racconta un aneddoto legato ai suoi inizi con un pallone fra i piedi?
Giocavo ovunque con chiunque, bastava che ci fosse un pallone. Quando avevo sei o sette anni giocavo con i bambini di dieci. A un certo punto ho iniziato a trascurare un po' la scuola, tanto che in seconda media, proprio per questo motivo, sono stato bocciato. Quindi i miei genitori non volevano più che giocassi a calcio. Il mio allenatore, che era anche un professore di chimica in una scuola serale, si è preso la responsabilità di seguirmi. Mi portava agli allenamenti, poi, una volta finito il lavoro sul campo, andavo a scuola serale. Tornavo a casa ed ero 'cotto', perché andavo a letto alle 11. Però mi ha permesso di proseguire con il pallone, che era quello che volevo, e al tempo stesso di rimettermi in pari con la scuola, dove sono arrivato fino al diploma. Mi ha migliorato come calciatore, ma soprattutto come persona.