
Non Solo Piedi Buoni: l'intervista a Irene Cataldo
domenica 30 marzo 2025

Mi chiamo Irene e sono un terzino della squadra under 17 della Bellaria Pontedera. La mia passione per il calcio è una cosa di famiglia. Ho due fratelli più grandi che prima di me avevano iniziato a giocare a pallone in due squadre vicino a Palermo, nella terra siciliana dove anche io sono nata e dove ho vissuto fino all’età di 10 anni. E’ proprio in un paesino vicino a Palermo, a pochi passi dalla mia casa di allora, che anche io ho iniziato a giocare a calcio, a 8 anni, in una squadra di cui io ero l’unica bimba. Come dicevo, la mia famiglia ha il calcio nel sangue e così per me, a differenza che per altre mie coetanee appassionate del gioco più bello del mondo, non è stato necessario faticare troppo per convincere i genitori a indossare le scarpe coi tacchetti e scendere in campo. Anzi, a dire la verità all’inizio sono stata io che mi sono fatta un po’ pregare, di fronte a tutti i ponti d’oro che mio padre e i miei fratelli mi facevano dicendomi di continuo: “Irene, Irene, ma perché non giochi a calcio anche te?”. La mia prima esperienza pallonara nella scuola calcio della San Carlo Lauris è stata bellissima ma si è interrotta bruscamente a causa di una notizia clamorosa: un giorno i miei genitori mi dissero che eravamo pronti a trasferirci dalla Sicilia alla Toscana. Il motivo era, tanto per cambiare, il calcio. I due miei fratelli più grandi erano stati chiamati tutti e due a giocare in una squadra giovanile toscana, e i miei genitori hanno scelto di tenere unita la famiglia decidendo di portare tutti in Toscana, compresi me e il mio fratellino ultimo arrivato. Per me all’inizio non fu una bella notizia. Mi sarebbe piaciuto restare a Palermo. Però non avevo alternative. E così mi sono fatta forza, cambiando città, scuola, amici all’età di 11 anni. Una delle prime cose su cui ho chiesto informazioni nella mia nuova cittadina di Ponsacco, dove la mia famiglia era venuta ad abitare e dove il mio babbo aveva trovato lavoro come autista degli scuolabus in un paesino della zona, è stata: “Dove posso trovare da queste parti una squadra di calcio in cui continuare a giocare?”. Dapprima ho scelto la stessa società sportiva dove erano stati chiamati i miei fratelli. Mi iscrissi alla scuola calcio di quella squadra, sempre come unica femmina in una squadra tutta al maschile. Ma lì, a differenza della mia vecchia squadra di Palermo, l’accoglienza non fu delle migliori: battutine sessiste e mancanze di rispetto anche da parte dello stesso allenatore erano all’ordine del giorno e mi facevano soffrire. Nonostante questo portai a termine la stagione e poi, finita l’era della scuola calcio, sono passata a giocare in squadre di calcio femminile. Ho giocato prima nell’Empoli e poi nel Livorno Academy. Nell’Empoli ho trovato maggiore organizzazione per i trasporti da casa al campo e ritorno, ma anche maggiore freddezza nel gruppo squadra e anche qualche brutto episodio di prese in giro da parte dei ragazzi dell’Empoli maschile miei compagni di viaggio sul pulmino. A Livorno invece mi sono trovata benissimo a livello di squadra e di ambiente, al punto che l’allenatore e la squadra mi scelsero come capitana: però c’era meno organizzazione per i trasporti; non sempre il pulmino della squadra poteva arrivare fino a Ponsacco per prendermi e riportarmi a casa, e così anche in quel caso ho dovuto a malincuore salutare. Per fortuna che proprio la scorsa estate a Pontedera la Bellaria ha messo su una bella squadra femminile della mia fascia di età (under 17) e così mi sono trasferita trovando finalmente la stabilità e la vicinanza da casa che per diversi anni avevo cercato inutilmente.
Qui alla Bellaria mi sono trovata in una squadra molto forte in cui c’è una bella concorrenza per ottenere una maglia da titolare nelle partite di campionato. Io ce la sto mettendo tutta e sto riuscendo a trovare il mio spazio nel ruolo di terzino. Ho provato l’emozione del primo gol stagionale, nella partita in casa contro la Carrarese. E poi cerco di fare la mia parte anche nello spogliatoio, per aiutare il gruppo squadra a diventare sempre più unito: cosa non facilissima visto che la nostra è una squadra appena nata con tutte ragazze provenienti da esperienze calcistiche diverse. Uno dei fattori che ci sta aiutando a creare una bella identità di squadra è il progetto della Figc a cui io e le mie compagne della Bellaria under 17 stiamo partecipando in questa stagione: è un progetto che porta la nostra squadra a fare amicizia con i ragazzi nostri coetanei della comunità per minori di Pontedera. Oggi c’ero anche io lì alla comunità per passare un po’ di tempo insieme ai ragazzi che ci abitano e all’educatrice che prova a essere per loro una specie di genitore di riserva. Oggi era un giorno particolare per la comunità perché, ci hanno detto i ragazzi, sta per arrivare un nuovo ospite e gli educatori hanno previsto un cambio generale di disposizione nelle camere. Questa cosa comprensibilmente aveva un po’ messo in crisi Paola (nome di fantasia), una delle ragazze della comunità che ha passato un po’ di tempo con noi raccontandoci un po’ di cose mentre noi provavamo a incoraggiarla in vista del cambio di camera. Parlando con Paola ho capito un po’ meglio il funzionamento della comunità, e mi ha colpito venire a sapere di tutte le regole e le limitazioni che i ragazzi ospitati devono rispettare. La paghetta settimanale tassativa e sempre quella, le uscite dalla comunità anche di poche ore sempre da concordare con gli educatori, il telefono da lasciare agli educatori al momento di andare a dormire, la cucina chiusa fuori dalle ore dei pasti, e poi i rapporti con i genitori spesso definiti dalle regole strettissime del tribunale dei minori… Ascoltando il racconto di Paola mi sono sentita fortunata e ridicola, nelle mie litigate che a volte metto su con i miei per delle cose in realtà banalissime. E poi mi ha colpito e mi ha riempito di ammirazione la sottolineatura di Paola quando dopo averci raccontato della vita in comunità ha aggiunto: “Guarda che tutto questo l’ho scelto io, non sono stata obbligata. Avrei potuto restare con mia mamma nella casa famiglia di cui eravamo ospiti tutte e due. Ma qui nella comunità avevo la possibilità di restare a Pontedera, di proseguire la scuola superiore che stavo facendo prima che io e mamma perdessimo la casa. E allora ho scelto di fare questo sacrificio: la lontananza da mia mamma è difficile, però non durerà ancora per molto; restando qui so che fra poco tempo la riabbraccerò, con nella valigia un bel diploma del liceo di scienze umane”.