Hall of Fame

Il talento di Mr. Zola, un altro numero 10 nella ‘Hall of Fame’: “Alla Nazionale avrei potuto dare di più”

Con Baggio, Del Piero e Totti va a formare un poker di fantasisti niente male: “Ha ragione Mancini, oggi non si gioca più per strada e viene meno la creatività”. Il legame con Vialli: “Un grande rapporto, ma quella volta con il wasabi…”. Sul Napoli di Spalletti: “Avrei fatto fatica a trovare spazio. Che giocatore Kvaratskhelia, mi ricorda Best”

mercoledì 5 aprile 2023

Il talento di Mr. Zola, un altro numero 10 nella ‘Hall of Fame’: “Alla Nazionale avrei potuto dare di più”

Era un numero dieci all’epoca dei grandi numeri dieci, quando la fantasia era al potere e per misurare il talento bastava un numero di maglia. Dopo Roberto Baggio, Alessandro Del Piero e Francesco Totti, Gianfranco Zola va a completare il poker di fantasisti della ‘Hall of Fame del Calcio Italiano’ facendo il suo ingresso trionfale in compagnia di un altro numero uno tra i numeri dieci come Zinedine Zidane.

“La compagnia non è male”, esordisce scherzando. “Sono sorpreso e compiaciuto di ricevere questo riconoscimento”. In un periodo storico in cui in Italia gli attaccanti sono merce rara, anche i trequartisti sembrano ormai una specie in via di estinzione. Mancini ha attribuito questa carenza di talenti anche al fatto che i bambini non giochino più a pallone per strada: “Roberto ha ragione. Un tempo i giocatori venivano fuori dalla strada o dalla parrocchia, io sono tra quelli. Giocando in strada ti abitui a uscire dagli schemi, sei più creativo, mentre in un settore giovanile cresci in un ambiente più organizzato e strutturato. Dopo l’avvento di Arrigo Sacchi in Italia si è puntato di più su giocatori schematici che estroversi, questo ha portato dei benefici, ma è stata trascurata la creatività. L’ho appurato andando a giocare in Inghilterra, dove si lavorava molto meno sulla tattica ma si dava più spazio all’improvvisazione, al dribbling, favorendo così anche il ritmo e l’intensità di gioco”.

Il calcio è cambiato, il regista a ridosso delle punte sembra ormai superato e anche il talento ha dovuto traslocare, spesso sulle fasce: “Calciatori con caratteristiche simili alle mie come Politano, Zaccagni o Verde vengono fatti giocare oggi come esterni. Il contesto è cambiato e sono chiamati a sviluppare qualità diverse. Altri, come Pellegrini, giocano a centrocampo”.

La favola calcistica di Zola inizia nel Corrasi, a Oliena, paese di seimila abitanti a pochi chilometri da Nuoro. Da lì la Nuorese, poi la C2 con la Torres: “Giocavo da prima punta e non a caso una delle mie migliori stagioni è stata a Parma, quando ho giocato da attaccante o, come si direbbe adesso, da falso nove. Con la Torres ho iniziato a fare il centrocampista e non è andata male”. Diventa impossibile non accorgersi del talento di quel ragazzo sardo che tratta il pallone con i guanti bianchi e, come spesso accade, Luciano Moggi fiuta l’affare. Nel 1989 il Napoli lo acquista per 2 miliardi di lire e Gianfranco trova subito un estimatore speciale in Diego Armando Maradona. “Diego e Careca arrivarono quando la preparazione era già iniziata e così io e Massimo Mauro trovammo più spazio. Ebbi modo di farmi conoscere giocando da centrocampista e da mezza punta”. Arrivano anche due gol preziosi per la conquista del secondo Scudetto: “Ho avuto la fortuna di vivere quella festa a Napoli, è stato straordinario. Sarei estremamente contento se arrivasse il terzo Scudetto, la gente di Napoli se lo merita. So quanto sarebbe importante per loro”.

Ma nel Napoli di Spalletti Gianfranco Zola avrebbe avuto una maglia da titolare? “Bella domanda, tutti farebbero fatica a giocare in questo Napoli. Avrei dovuto lavorare duro, ma forse un po’ di spazio l’avrei trovato. Quando lo vedo giocare penso ‘wow’, che meraviglia. La sua forza non è solo nelle individualità, ma nella collettività”. Parlando di individualità una menzione speciale la meritano Osimhen e Kvaratskhelia: “Kvara non lo conoscevo, ho un’opinione altissima su di lui. È un giocatore molto tecnico, ma anche un uomo squadra. Ha una grande personalità e il suo è stato un crescendo, non si è mai fermato. Mi ricorda George Best”.

Dopo la partenza di Maradona la maglia numero dieci cade sulle sue spalle, un’eredità pesantissima per chiunque, anche per un ragazzo dall’avvenire assicurato: “Indossarla è stato molto stimolante, ma sarebbe anche potuto diventare estremamente pericoloso. Sono stato bravo a deresponsabilizzarmi, sapendo che sarebbe stato impossibile paragonarmi a Diego. Diego era unico”.

Nell’estate del ’93 la storia d’amore tra Zola e il Napoli si interrompe bruscamente e i tifosi si sentono traditi: “Non fu una decisione semplice, ero molto legato alla squadra e alla città. Ma la società quell’anno aveva dei problemi economici e, oltre a me, furono ceduti Ferrara, Thern e Fonseca”. A Parma arrivano i primi due trofei internazionali, una Coppa e una Supercoppa UEFA, ma anche il 6° posto nella classifica del Pallone d’oro 1995: “Era una squadra fortissima, che avrebbe potuto raccogliere di più anche in campionato”.

In una carriera mai banale, Gianfranco volta ancora pagina. E lascia l’Italia: “Io, Vialli e Di Matteo prendemmo una decisione coraggiosa, che si è poi rivelata un’esperienza straordinaria. Andammo controcorrente perché all’epoca la Serie A era il campionato migliore”. Al Chelsea si innamorano subito di Zola, che in campo diverte e si diverte arricchendo la sua bacheca con una Coppa delle Coppe, due Coppe d’Inghilterra, una Coppa di Lega inglese e la Charity Shield. Dal gol a Wembley con l’Inghilterra, il più simbolico tra i dieci (guarda un po’…) realizzati in Nazionale, all’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico, ‘Magic Box’ scopre di avere un feeling particolare con il Regno Unito. E anche con Gianluca Vialli nasce un legame profondo: “A volte avevamo visioni diverse, ma ci siamo sempre confrontati con il massimo rispetto. Avevamo un grande rapporto, con i suoi valori è stato importante per tutta la squadra”. Non mancano gli scherzi: “Stavo cercando casa, la sera non sapevo dove andare a mangiare. Gianluca mi portò al ristorante giapponese e mi invitò a provare il wasabi. Ne misi in abbondanza su una fetta di pane, per poco non finii all’ospedale…”.

È quasi tempo di appendere gli scarpini al chiodo, ma prima di uscire di scena Gianfranco si regala l’ultimo colpo di teatro. Torna nella sua terra, la Sardegna, e trascina a suon di gol il Cagliari in Serie A guadagnandosi l’ingresso in un’altra ‘Hall of Fame’, quella del club rossoblù: “È stata un’altra decisione anomala quella di lasciare una squadra che puntava a vincere la Champions League per andare a giocare in Serie B. Sognavo di portare in Sardegna l’esperienza che avevo maturato, è stata una scelta di cuore che non ho mai rimpianto”.

Più travagliato il suo rapporto con la Nazionale (35 presenze e 10 reti), caratterizzato da qualche gioia, ma anche da tante delusioni, dal rigore sbagliato con la Germania a EURO ’96 all’esclusione dai convocati per il Mondiale di Francia ’98: “Penso di non essere riuscito a dare tutto me stesso alla Nazionale. Avrei potuto dare molto di più, purtroppo l’emozione mi ha giocato un brutto scherzo. Ho sempre amato la maglia azzurra e se sono diventato un calciatore lo devo alla vittoria nel Mundial ’82, è lì che ho capito cosa avrei voluto fare da grande. In alcuni frangenti non sono riuscito ad essere abbastanza freddo, è stato un mio limite”.

Nella scatola dei ricordi c’è un posto speciale per il gol che regalò all’Italia il secondo successo della sua storia a Wembley dopo quello firmato da Fabio Capello nel novembre del ’73 (“È stato bellissimo per me e per i tanti italiani che vivevano in Inghilterra”). Ma è impossibile dimenticare una delle più grandi ingiustizie subite da un calciatore della Nazionale. Se in Italia Arturo Brizio Carter non ha la stessa notorietà di Byron Moreno è solo perché la doppietta di Roberto Baggio con la Nigeria evitò all’Italia una clamorosa eliminazione agli Ottavi di finale del Mondiale americano. Il nome dell’avvocato messicano resterà per sempre impresso nella mente di Zola, espulso per un fallo inesistente dodici minuti dopo il suo ingresso in campo. Si giocava al Foxboro Stadium Boston, era il 5 luglio, e quel giorno Zola compiva 28 anni: “È stato senza dubbio il peggior compleanno della mia vita. Non avevo fatto niente, quando ho visto il cartellino rosso non volevo credere ai miei occhi”. Il danno oltre la beffa le due giornate di squalifica: “Un peccato non aver avuto più spazio, sentivo che avevo molto da dare”. E pensare che per volare negli Stati Uniti aveva dovuto battere la concorrenza con un certo Roberto Mancini: “Eravamo in ballottaggio. Roberto era un giocatore straordinario, probabilmente anche lui come me non è riuscito a dimostrare tutto il suo valore in Nazionale”.

E forse non è un caso che Zola come Mancini abbia voluto ritrovare la maglia azzurra sotto una nuova veste, come vice allenatore nell’Under 21 di Pierluigi Casiraghi: “È stato un periodo molto bello, mi sono divertito tanto. Non avevo mai pensato di diventare un allenatore e quell’esperienza mi ha fatto cambiare idea”. Il presente lo vede ricoprire un nuovo ruolo ancora, stavolta nei panni di vicepresidente della Lega Pro guidata da Matteo Marani: “Ho avuto la fortuna di conoscere, sia da calciatore sia da allenatore, due mondi diversi come Italia e Inghilterra. Non sono un politico, ma un uomo di sport e spero di poter dare dei suggerimenti utili”. Come sempre entrando in punta di piedi. Ma che piedi…